Tu sei qui: Home Memorie... Il campo di concentramento

Il campo di concentramento

 

In una fredda giornata autunnale, dopo aver attraversato la pusda ungherese, la pianura polacca, il treno, dopo una breve sosta, attraversò un ponte sulla Vistola, le cui acque limacciose scorrevano sotto. Era l'ottobre del 1943. Su quel ponte traballante capirono che uscivano dall'Europa dell'Est per entrare nella pianura polacca e in Russia (Biala Podlaska era vicino a Brest Litovsk). Proseguirono sempre verso Est. Una notte, il treno si fermò e lessero l'indicazione "Biala Podlaska"; fu loro concesso un pasto caldo a base di minestra di miglio, che parve loro deliziosa più di qualunque manicaretto! Li fecero scendere tra un "Raus!" e l'altro, diedero loro del pane (la pagnotta da dividere in cinque) e una coperta. Dalla stazione, diretti al campo di concentramento, al chiaro di luna, dopo dieci giorni di viaggio in carro bestiame, con indosso i bagagli a destra e a sinistra cumuli di carbone, si avviò una colonna di ufficiali che cantava: Oh mia patria, si bella e perduta..., e, ancora, il canto dei Savoia: Conserva deus regnum..., attraverso il quale affermavano la loro fedeltà ai Savoia. Mauro ricorda perfettamente la scena, e la rivive con grande commozione. Li diressero verso le baracche che iniziarono ad attrezzare per poterci dormire e, possibilmente, viverci. Entrarono nel campo "A", dove fecero "conoscenza" con l'ambiente della baracca e con l'autunno polacco, sotto la minaccia di un inverno terribile, che arrivava anche a meno quaranta gradi centigradi. Qui giunti, organizzarono le loro povere cose e il giorno dopo fecero anche il bagno e disinfettarono gli indumenti. In attesa che giungesse l'inverno con i suoi rigori, spidocchiavano gli indumenti negli autoclave. Per riprenderli, dovevano attraversare, a piedi nudi, dopo aver fatto il bagno, coperti solo da un piccolo asciugamano, un ruscello ghiacciato!

Appena arrivati a Biala Podlaska, Mauro si recò all'infermeria poichè aveva un favo sul collo che ormai era arrivato a limiti impossibili, poichè colava pus da tutti i lati. L'infermiera francese, però, nonostante giungesse il suo turno, non lo chiamava mai. Il medico le chiese la ragione di tale comportamento. L'infermiera rispose semplicemente: "Il va mourir". Mauro capì, ma non si perse d'animo e chiese comunque aiuto al dottore. Egli non aveva nessun mezzo idoneo per l'operazione, ma solo un paio di forbici. Tagliò il favo senza anestetico e fasciò il collo con della carta. Il Padreterno fece poi il resto, come si era augurato il medico ("Ora, se il Padreterno ti aiuta, sopravviverai..."). La ferita si rimarginò in modo splendido e Mauro è ancora qua. Molti che erano lì con Mauro, sarebbero poi morti per tubercolosi. Ricorda con grande commozione i funerali di chi moriva nel campo, con la neve che cadeva tristemente. M. P. lo invitò, una volta, a prendere le scarpe del compagno morto. Mauro si rifiutò. Le prese un altro ufficiale, le cui scarpe erano ancora più malridotte rispetto a quelle di Mauro (erano proprio completamente aperte!). Un professore di greco, tal B., decise di leggere una commemorazione scritta in greco, perchè non fosse compresa dai tedeschi. Il testo iniziava così: "Ara la tomba, e lode il rito funebre...". Venne allora un soldato delle SS a chiamare il tenente del campo, il quale, impaurito, non voleva recarsi da lui. Al suo posto si offrì Mauro. Lo ricevette con cordialità, parlando un ottimo italiano. Aveva frequentato la Normale di Pisa. Mauro disse: "Avrà allora visto la lapide di Curtatone e Montanara". Nel sentire questo, il tedesco non volle sapere altro, gli strinse la mano e lo salutò. Al suo ritorno in camerata, Mauro trovò i compagni in trepidante attesa. Lo accolsero dunque con un sospiro di sollievo per il pericolo passato.