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Dopo l'8 settembre 1943

 

Una mattina, uscito dal cortile della caserma, Mauro incontrò il tenente Z., il quale disse: "L'Italia ha chiesto e ottenuto l'armistizio". Mauro corse immediatamente nella sala della mensa, dove il trombettiere suonò il "rapporto ufficiale" per chiamare tutti a raccolta. Qui il Capitano L. cominciò così il suo discorso: "Il Tenente Z., commettendo una grossa infrazione, ha sentito da Radio Londra che l'Italia aveva chiesto e ottenuto l'armistizio. Il Colonnello disse che avrebbe comunicato gli ordini conseguenti nella stessa giornata, che, però, non arrivarono…. Il giorno dopo giunse l'ordine al battaglione di raggiungere Scutari attraverso le montagne. Fecero i bagagli e partirono, con prima tappa a Letài dove, come l'improbabile lettore ricorderà, Mauro era stato di presidio e aveva conosciuto il direttore e gli impiegati dalla miniera. Nel pomeriggio ripartirono e in serata raggiunsero la meta della prima tappa. Appena arrivati, il direttore della miniera andò incontro a Mauro. Senza mezzi termini gli disse: "Ma dove volete andare?" e, facendogli segno col dito, gli indicò i posti dove erano appostati gli albanesi pronti ad attaccarli. Continuò: "Nessuno di voi oltrepasserà il blocco che è stato organizzato in modo da distruggervi tutti: vi ammazzeranno e, dopo avervi spogliato di tutto, non vi daranno neppure cristiana sepoltura, anzi, vi lasceranno mangiare dai cani!". Nel pomeriggio, allora, cominciarono le trattative con gli armati albanesi i quali concentrarono un nutrito e ben armato squadrone per intimorire il Battaglione cui apparteneva Mauro e costringerlo a consegnare le armi (avendo gli italiani perduto la guerra, la continuavano loro). Volò qualche colpo di fucile e il Colonnello ordinò di sparare qualche colpo di mortaio contro la casa occupata dagli albanesi, per proteggere gli italiani da un eventuale attacco progettato contro di loro. Il Colonnello allora decise di battere in ritirata e di tornare alla caserma a Giacova, che distava ben 16 km di montagna e che avevano abbandonato per obbedire agli ordini.

Appena iniziato il movimento, gli albanesi aprirono il fuoco. Essendo ben esposti, offrivano un buon "tiro al piccione". Il colonnello ordinò al tenente S. di piazzare una mitragliatrice e di proteggere i soldati col fuoco. Difatti gli attaccanti furono costretti a ripararsi e a moderare il fuoco. Mauro era con l'ultimo plotone della compagnia e quindi più esposto al fuoco, anche se a due passi c'era S. che comandava la mitragliatrice che li proteggeva. Cadde e pensò di essere ferito. Si strappò anche il pantalone, però, come Dio volle, riuscirono a superare la cima della collina e iniziarono la corsa verso la strada che li avrebbe portati a Giacova.

I 16 Km che li separavano da Giacova furono percorsi in un tempo che, a Mauro, oggi, è impossibile ricalcolare in rapporto alla velocità con cui la percorsero, di notte, sotto il fuoco degli albanesi. Mauro, P. e M. andarono dalla parte del fiume (la parte carraia), mentre P. P. e gli altri entrarono nella caserma dall'entrata principale. La conquistarono d'impeto, mentre si vedevano cadere nel fiume le pallottole sparate dagli albanesi, nel cuore della notte. Mentre questi ultimi uscivano dalla caserma, apparve il colonnello che disse: "Non sparate!". E' probabile che volesse trattare con gli albanesi, ma all'improvviso uscirono due briganti, di corsa, che lo pugnalarono. Mauro, che era a due passi da lui, scappò in un lampo verso la trincea, più veloce dei due che avevano tentato di assalire anche lui. In un attimo, quindi, grazie alla sua prontezza di riflessi, si salvò la pelle. Stette tutta la notte accovacciato in trincea, in attesa di novità. La mattina gli dissero che il colonnello era morto e che avrebbero potuto rendere omaggio alla salma.

Restarono ancora due gioni nella caserma. Ora comandava M., che era aiutante maggiore. M. aveva un grande intuito nel capire le situazioni, era bravo nel guidare la compagnia, anche se ufficialmente era al comando L., in qualità di vice comandante di battaglione. Gli albanesi li lasciarono stare nella caserma, aspettando che si arrendessero stremati dalla fame. Quello che non erano riusciti a fare a Letai, lo avrebbero fatto a Giacova. La Provvidenza mandò un monaco che disse agli italiani: "All'ora "tot" passerà una macchina con i caporioni. Prendetela e, quando li rilascerete, vi lasceranno andare". Dopo rapide trattative, fu stabilito che il mattino dopo sarebbero usciti. Li avrebbero attaccati solo quando avrebbero rilasciato i loro capi. Difatti, al mattino, nel massimo silenzio, il battaglione (1000 persone, più altri, che si erano accodati a loro; in tutto, quindi, erano circa 2000 persone) si avviò verso l'uscita concordata. La compagnia che comandava Mauro fu incaricata di uscire per prima.

La strada terminava con un arco che dava verso la campagna, dove gli albanesi continuavano a sparare. Mauro era in testa, con il sergente B., ragazzo molto intelligente, in gamba. Fuori sparavano. Quando venne l'ordine: "Decima compagnia, fuori!", Mauro si rivolse a B. e, gridando per farsi sentire dagli altri soldati, disse: "B., questi non possono continuare a sparare a vita. Appena sento che il fuoco cessa, do l'ordine di uscire". Quando sentì che il fuoco cessava, ordinò: "Decima compagnia fuori, svelti!". In un attimo uscirono, e si misero a proteggere gli altri che uscivano, da dietro un muretto. Mauro si fece dare il fucile mitragliatore perchè un gruppo era uscito dall'altra parte e si era gettato nei campi per venire loro incontro e sbloccarli. Mauro puntò il fucile mitragliatore contro gli albanesi che li attendevano nascosti nell'erba alta e gridò: "M., scappa, ci sono gli albanesi!". E così gli salvò la vita.