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Mauro Masi, una lunga vita dedicata alla pittura - 2011

di Gerardo Corrado

 

Ho sempre pensato che Mauro Masi dovesse oltrepassare anche il limite dei suoi novant’anni raggiunti, e continuare, dalle sue residenze di Roma e Rivello, ad essere quella figura fissa di riferimento culturale per quanti, giovani studiosi della nostra regione, avessero voluto ricostruire le vicende della pittura lucana dal secondo dopoguerra ad oggi, nel suo farsi autonoma e nelle sue molteplici relazioni con la poesia ad essa contemporanea, contrassegnata, nello stesso periodo, dalla presenza forte di Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli, Michele Parrella. Ora che Mauro Masi non è più con noi e sento in me tutto il vuoto che la morte di un amico intimo e carissimo ci può lasciare, mi fanno compagnia i tanti ricordi della nostra vita in comune, dei nostri colloqui incessanti, del nostro dibattere, di una corrispondenza che aveva in sé il legame di un’amicizia fraterna e l’assoluta franchezza delle proprie opinioni. 

La vicenda artistica di Mauro Masi inizia molto presto, già con quei piccoli disegni a lapis con cui usava commentare le opere classiche dei maggiori artisti italiani, a margine delle pagine di storia dell’arte di Argan. Tra gli alunni di R. Claps al liceo “Q. O. Flacco” di Potenza, è tra i pochissimi che mostrano attenzione alle lezioni sull’arte italiana del pittore aviglianese. Conseguita la licenza liceale, parte per il servizio militare. È allievo sottufficiale a Salerno, Brescia, comandante di compagnia in Albania. È fatto prigioniero dopo l’8 settembre 1943, attraversa mezza Europa per finire in un campo di concentramento per ufficiali italiani nella Germania devastata dai bombardamenti aerei delle nazioni “alleate”. Nel campo di concentramento vi sono altri pittori, il critico Biason. Si organizza una mostra di pittura: un sergente tedesco, di sorveglianza al campo, gli compera un dipinto realizzato su una pezza da piedi, pagandoglielo con del pane e delle patate. 
Al ritorno a casa, accentua il suo carattere indipendente, nemico di ogni sistema. Si laurea in giurisprudenza, ma non farà mai l’avvocato. Va ad insegnare la lingua francese a Rivello, ai confini della Basilicata con la Calabria. Nel ’63 si trasferisce a Napoli ma la permanenza nella città, sebbene favorita dall’incontro e dall’amicizia con gli intellettuali della rivista “Nord e Sud”, si chiude con un’esperienza negativa e senza sbocchi. 

Napoli è il cuore del Sud, la città malata che mostra le sue piaghe inguaribili. Il ’69 Mauro raggiunge Roma dove lo sviluppo urbano tumultuoso, senza legge, diventa per lui il segno emblematico del disordine. Ma ho detto dei tanti ricordi di vita in comune con Mauro che ora premono, si presentano in folla alla mia mente, e chiedono di parlare al posto della persona cara che non è più. Tra di essi, uno mi ritorna con particolare nitidezza: un dipinto da lui realizzato forse utilizzando appunti rubati alla memoria del lungo viaggio, a marce forzate, verso il campo di concentramento. La scena era quella di una lunga teoria di uomini infagottati nei pesanti pastrani militari nel loro andare silenzioso in uno stretto tunnel. In quel silenzio ottuso del tunnel, in cui si sarebbe potuto ascoltare il calpestìo disordinato di quel gregge umano avviato verso il nulla, soltanto un teschio, lasciato indietro da quel passaggio di larve umane, sembrava fare da commento, nella sua icasticità allegorica, da un parapetto. 

Ho conservato il ricordo di quel dipinto per lunghi anni, da quando Mauro, appena tornato dalla prigionia, m’accolse, io ancora bambino, nello studio di via Manhes che condivideva con il decano della pittura lucana Michele Giocoli, quasi sempre assente per i suoi lavori in campagna, fosse tempo di semina o di mietitura. Si dice che a volte può bastare una sola unica opera a dare ragione, ed a giustificare, l’intera esistenza d’un autore. Ebbene, io credo che questo dipinto di Mauro, qualora fosse rintracciato ed esposto in una mostra antologica in suo onore, potrebbe ben rappresentare, nel suo insieme, il suo percorso umano ed artistico per emergere dall’oscurità alla luce, alla luce della pittura, intesa da lui come magistero di vita, profonda moralità nell’agire, certamente non come vuoto sperimentalismo delle forme, ma creazione di figure simboliche positive ed invenzione di altri mondi possibili per l’uomo, in grado di opporsi all’istinto di morte e al nichilismo della nostra civiltà contemporanea.