Tu sei qui: Home Recensioni Mauro Masi: l'arte come vita - 2011

Mauro Masi: l'arte come vita - 2011

di Annalisa Venditti

 

Quando dieci anni fa ho iniziato a studiare l’arte nei lager degli ufficiali italiani, internati in Germania dopo l’8 settembre del 1943, non avrei mai immaginato di poter stringere la mano a uno dei protagonisti della mia indagine. Sia per ovvie questioni anagrafiche, sia perché avevo in mio possesso soltanto una lista di cognomi, senza altre indicazioni. E’ solo merito del web se, un giorno, presa la cornetta del telefono, mi sono ritrovata a parlare con Mauro Masi, pittore lucano, romano d’adozione. Un intellettuale di spessore, nonostante la semplicità dei suoi modi, conditi da una simpatia travolgente. "Mi scusi, parlo con il Maestro Masi?" – esordivo emozionata. "Sì, sono io!" – mi rispondeva dall’altra parte una voce squillante e solare che difficilmente avrei potuto attribuire ad un uomo che si avvicinava alla novantina. Mi presentavo. Dall’altra parte percepivo attenzione e curiosità e la benché minima forma di diffidenza. Mauro Masi era così. Poi la domanda che mi aveva portato sino a lui: "non so se sbaglio... Ma lei è stato internato in Germania?".

"Sì. Prima in Polonia, a Biala Podlaska, poi in Germania" – mi rispondeva. Insomma, era proprio lui l’ufficiale-artista che stavo cercando. Il resto dell’intervista veniva rimandato a un incontro, fissato a casa sua. Nello studio, una fucina piena di tele, colori e bozzetti avevo la possibilità di ammirare l’arte di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e alla sperimentazione sulla forma e sul colore. Il talento creativo di chi ha amato il suo lavoro a tal punto da non poterne fare a meno. Venivo rapita dalle sue tele di sacco, che raccolgono la pastosità della materia in un modo unico. Soprattutto nel lager l’arte rappresentò per Masi la libertà dell’anima, ma anche un modo per ricevere dai tedeschi, in cambio di un disegno, qualcosa in più da mangiare. Ricordava moltissimo di quell’esperienza lontana e la ripercorreva per me, sul filo della memoria. Così da quel giorno cominciarono ad affiorare da casse e bauli le sopravvissute carte del suo internamento, schizzi a matita che descrivevano con l’intensità dell’attimo catturato la vita nelle baracche, le adunate, la fame e le altre privazioni. Toccavo quei disegni, realizzati su povera carta, come delle reliquie. Con lui che mi diceva: "non ti preoccupare... hanno fatto un viaggio incredibile... sono indistruttibili!". Mi parlava de "La voce di San Gerardo", un giornale interamente realizzato a mano, durante la prigionia, da altri ufficiali lucani come lui, cui aveva collaborato per le illustrazioni. Non sapeva più dove fosse. Aveva solo delle sbiadite fotocopie in bianco e nero. Promisi di trovarla. Per molto tempo le mie ricerche si concentrarono a Potenza e invece La voce di San Gerardo si trovava a Roma, poco distante da casa mia: il destino?

Ora che, da quattro giorni, Mauro non c’è più mi ostino a pensare che di lui sopravvivono per sempre i beni più preziosi: la memoria condivisa della prigionia, la forza intellettuale, l’universo creativo, ovvero le sue opere. Ma questo egoisticamente non mi basta. Perché già mi manca la sua amicizia.